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Cinque citazioni dai libri che amo

citazioni dai libri che amo

Buon venerdì cari lettori. Oggi vi parlo di cinque citazioni tratte dai libri che amo. Ovviamente l’elenco è molto più lungo di così ma da qualche parte bisognava pur cominciare no?  Ecco perché mi è venuto in mente di realizzare una rubrica interamente dedicata alle citazioni.  Alcuni sono libri che ho recensito, altri li ho letti tanti anni fa.

Stoner

stoner

L’amore per la letteratura, per il linguaggio, per il mistero della mente e del cuore che si rivelano in quella minuta, strana e imprevedibile combinazione di lettere e parole, di neri e gelidi caratteri stampati sulla carta, l’amore che aveva sempre nascosto come se fosse illecito e pericoloso, cominciò a esprimersi dapprima in modo incerto, poi con coraggio sempre maggiore. Infine con orgoglio.

Amo tanto Stoner e anche quando ho ascoltato questa frase, ho letto il libro anche con Storytell ho avuto i brividi (Qui la mia recensione – Stoner di John Williams).

Il giorno che diventammo umani

Il giorno che diventammo umani - Paolo Zardi - Neo edizioni

«La paura della morte. Siamo pieni di questa fottutissima paura di morire. Basta fermarsi un attimo, ed ecco che inizia chiederti: tra quarant’anni, dove sarò? Cosa sarò? Pensaci. Pensaci solo un attimo, e vedrai che ti sei già rovinato la giornata. Ma se lavori, il tuo orizzonte temporale si riduce- Cristo,  se si riduce! Perché il tuo problema diventa: riuscirò a consegnare il documento entro sera? E poiché sai bene quella sera sarai ancora vivo -Marinis escluso, ovviamente- sotto sotto ti convinci che lo sarai per sempre. O, come minimo, sai che sei riuscito a rimandare prima di morire al giorno dopo: oggi, mi spiace, ma ci sono cose più urgenti da fare. E come se tutti fossero convinti che si tratti di una questione di concentrazione: se stai facendo qualcosa, la morte si dimentica di te. Sai che c’è una popolazione di non so quale isola del Pacifico che non conosce la parola no? Dicono domani ecco, Finché si lavora, la morte è domani. La morte è no».

Questa frase mi è rimasta impressa perché l’ho trovata estremamente vera. Finché abbiamo qualcosa da fare abbiamo l’illusione di poter rimandare l’inevitabile (QUI la mia recensione – Il giorno che diventammo umani di Paolo Zardi). 

La campana di vetro

Mi sentii un’incapace totale. E il guaio era che lo ero sempre stata, solo che non mi ero mai fermata a pensarci. L’unica cosa che sapevo fare bene era vincere borse di studio e premi, ed anche quell’epoca stava per finire. Mi sentivo come un cavallo da corsa in un mondo senza ippodromi, o come un campione di calcio dell’università che si trova tutt’a un tratto di fronte Wall Street e al doppiopetto grigio, i suoi giorni di gloria ridotti alle dimensioni di una piccola coppa d’oro sulla mensola, con su incisa una data, come una lapide di cimitero.

Non sono un’amante della poesia, non mi ci sono nemmeno mai avvicinata. Eppure sento un legame con Plath che non riesco a spiegarmi. Ho letto solo questo romanzo e l’ho amato con  tutta me stessa.

Una storia ungherese

Una storia ungherese - Margherita Loy - Atlantide

Ma l’odio non è germogliato all’improvviso. Oh no. Io ho visto la gente di Budapest cambiare. Un pomeriggio dello scorso inverno, poco prima dell’invasione tedesca, ero sul tram quando sono saliti due zingari. Tra i passeggeri si è creata subito tensione. Gli sguardi bassi accompagnavano il silenzio che iniziava a rotolare lento; le parole si spegnevano a canone, prima le voci di quelli dietro quindi di quelli davanti. In un istante, il silenzio ha invaso tutto il tram. Le mani stringevano più forte le borsette o affondavano ancor più nelle tasche. Il controllore ha chiesto ai due zingari i biglietti. Erano anziani. Probabilmente erano arrivati a Budapest da poco. Hanno mostrato il loro biglietto. Il controllore ha detto che non andava bene. Tutti noi che eravamo lì abbiamo visto che il tagliando esibito era corretto. Nessuno ha fatto niente. Neanche io.

Questo libro è stata una scoperta. Mi è piaciuto tutto: dall’oggetto in se passando dalla trama, arrivando allo stile (QUI la mia recensione – Una storia ungherese Margherita Loy).

Divisione cancro

Divisione Cancro - Aleksandr Solženicyn - Il Saggiatore

Fin dall’infanzia, Vadìm pareva presentire che il tempo non gli sarebbe bastato. S’innervosiva se un ospite o qualche vicino veniva a far perdere tempo alla mamma o a lui. S’indignava perché a scuola e all’istituto le riunioni – per il lavoro, una gita, una serata, una manifestazione – venivano indette un’ora o due prima del necessario, in previsione dell’immancabile ritardo della gente. Non sopportava i notiziari radio che durano per un’ora: era convinto che tutte le informazioni utili necessarie si potessero condensare in mezz’ora, il resto era solo un riempitivo. Si infuriava perché, dovendo comprare qualcosa in un negozio, si rischiava, una volta su dieci, di trovarlo chiuso per inventario, verifica, consegna di merci, senza che si potesse preavvisare la gente. Qualsiasi soviet rurale, qualsiasi ufficio postale poteva venir chiuso in qualsiasi giorno feriale; a distanza di venticinque chilometri non era possibile prevederlo.

Forse era stato il padre a inculcargli l’avidità per il tempo. Anche lui non amava l’inerzia, e Vadìm  ricordava come una volta, tenendolo tra le ginocchia gli avesse detto: «Se non sai sfruttare il minuto, sprecherai l’ora, il giorno, tutta la vita.»

Era ovvio, dovevo pur citare il mio S. in qualche modo. Questa frase mi sta molto a cuore perché anche io ho questa ossessione del tempo. Chi non sa sfruttare un minuto rischia di non saper sfruttare una vita intera (QUI la mia recensione).

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